Una breve autobiografia, di Arturo Lini

Una breve autobiografia, di Arturo Lini

Sono nato nel 1948, a Volterra, nel cuore della cittadina, proprio di fronte al Palazzo dei Priori, che si affaccia su una delle più belle piazze medioevali d'Italia. In questo ambiente sono vissuto fino all'età di cinque anni; e a volte ritornando in quella stessa piazza mi chiedo cosa mai vidi o provai, quali immagini e impressioni mai si fissarono in me, e se ancora rimangono oltre la mia coscienza in qualcosa di me, oppure scomparse insieme al tempo che le generò, la prima volta che dalle stanze di una casa uscii a tutto quello che era "altro", cioè quella piazza e il mondo intorno. Perché di quell'età, di quei primi cinque anni della mia vita, non ricordo niente. 

Né le stanze dove sono cresciuto né le persone che insieme ai genitori mi erano intorno, e che pure mi festeggiarono, si strinsero intorno alla mia infanzia, così com'è naturale per chi viene alla luce in un ambiente dove vivono, nella stessa abitazione, tre nuclei familiari. Nel 1953 arrivai, con la famiglia, nella terra dove sono poi vissuto: un paesino nella campagna della Versilia. L'educazione che ho ricevuto veniva da una cultura contadina, con i suoi valori, le sue fedi, le sue a volte assurde convinzioni; i giudizi ed il senso della vita, dei rapporti sociali, che mi accompagnarono fino all'età di venti anni, al 1968 cioè, quando tutto quello che le parole fino a quel giorno apprese portavano e dicevano sembrò dover mutare, eclissarsi, sparire. A seguito di quel 1968 nella vita poi non ho fatto niente di quello che fino ad allora sembrava dover essere la mia: interrotti gli studi sull'ultimo anno della scuola magistrale non ho poi mai avuto un'occupazione, un lavoro stabile. 

Tutto passava senza che niente fermasse, indirizzasse ciò che l'età incontrava. Se un punto c'era è rimasto nell'unica costante compagnia che ha attraversato insieme a me quegli anni: un amore per la poesia, per la parola poetica, poi confluito in un volume, di poesie appunto, che pubblicai tempo dopo nel 1983. 'Opera Prima", un libro fatto di quei sogni che sono le idee quando appaiono vicine e possibili alla vita che tutto il mondo, via via che s'incontra, sembra un burro di fronte al fuoco, alla fiamma dell'età e della passione. Mi sognavo poeta, ed a questo pensavo di dedicare l'intera mia vita "Almeno potercene andare, far la libera fame, rispondere no, a una vita che adopera amore e pietà, la famiglia ,il pezzetto di terra, a legarci 1e mani" come scriveva Cesare Pavese. 

Nel 1976 sono venuto per la prima volta a Firenze, e in questa città sono vissuto per quattro anni, insieme ad una donna che frequentava la facoltà di Magistero. Fu attraverso lei, i suoi studi ed i suoi testi universitari, che mi immersi nel Gruppo 63, "la ragazza Carla", Tel Quel, il "grado zero", su su, fino a quella poesia visiva che in questa città ebbe il suo fulcro. Infatti trovato un editore disposto a mie spese a pubblicare le mie poesie piano piano dalla poesia scritta cominciai ad interessarmi a quella visiva: cominciai ad incollare, comporre immagini, scrivere su uno spazio diverso dalla pagina, poi ad usare i colori, con attenzione ma tanta improvvisazione. 

Ma qualcosa dei lavori di quegli anni rimase. e quello andò a costituire una mostra di pittura, fotografia e poesia visiva che tenni, con due amici, nel 1983 in uno spazio espositivo situato nel centro del paese dove sono quasi sempre vissuto: Stiava appunto, vicino a Viareggio. Di quello che esposi in quell'occasione ho conservato qualche cosa. Sono cartoni, superfici che hanno il dono dell'improvvisazione, se questo significa qualcosa. Ma quella mostra mi incoraggiò, mi tese come un arco verso un qualcosa che non conoscevo, ma che pure anelavo, e verso il quale puntavo le mie frecce, le mie opere, che mi nascevano tra le mani sempre sognando, cercando. 

Quando ripenso a quel periodo vedo un poeta ed un pittore intenti a costruire uno stesso comune sogno: l'uno non riesce più a scrivere una poesia, l'altro ancora non è riuscito a dare vita ad un quadro dipinto. Così tutti i miei sforzi, quelli iniziali e quelli successivi, più accorti ma ugualmente destinati ad un comune insuccesso, corsero verso una mostra tenuta in un centro culturale di Viareggio, nell'Agosto del 1988. Da allora ho accantonato le lettere e le amate parole; solo le forme ed i colori invadono la superficie. 

Di pittura la Versilia è nutrita: artisti sconosciuti, a volte splendidi, la abitano. Il quadro e l'estro che l'accompagna, liberi dal mercato e dalle ragioni di ogni sostentamento, spesso risolto in attività parallele, si assottigliano fino alle più piccole pieghe, ai segni più riposti: è difficile esponendo in queste terre e frequentando queste persone non assumere un atteggiamento esigente, intransigente, spesso fonte di dubbi e frustrazioni sulla propria opera, ma altrettanto rigoroso e nel tempo così affinato da riconoscere il senso del proprio lavoro esclusivamente davanti al proprio quadro. Solo davanti a quello, al proprio trionfo o alla propria impotenza, si ha il riconoscimento, il diritto di sentirsi o meno pittore; cosa che un versiliese a nessun successo, a nessun'altra persona delegherà, caparbiamente, il potere di farlo. 

Da allora, da quella mostra del 1988, sono i colori e la forza che può conferirgli la forma ad accompagnarmi in un percorso spesso incerto, a volte confuso e senza visibili vie d'uscita, ma comunque l'unico che posso percorrere. In questi anni le occasioni espositive sono state rare; quasi sempre divise con amici e quasi sempre circoscritte, tranne poche uscite, alla nostra regione. Dal 1991 abito a Firenze. In questa città ho l'occasione di un colloquio continuo con qualcosa che ha informato l'uomo e costruito la nostra civiltà: la pienezza e il potere dell'arte, dell'armonia, qui appare nel suo splendore, e le domande che un artista si pone spesso sono opprimenti se tanto inadeguate appaiono le proprie opere alle risposte. 

Perché l'arte? perché la bellezza di una forma è così centrale nella propria vita e nel corso di una civiltà? Per quale motivo ciò che appare sfuggevole e dovuto all'improvvisa concessione di una inspiegabile sensibilità, al dono di "qualcosa" posto al di là delle facoltà che lo compie in atto, perché questo, che è l'opera d'arte, finisce per essere lo specchio più reale dell'uomo stesso e del suo tempo? così preciso che niente, nessun'altra opera o attività umana, sarà pari a contenere e mostrare lo spirito di un'epoca? Eppure nessuna opera d'arte avrà mai la completezza e il calore del corpo che la disegnò, anche se il suo tempo sembra deridere quello attraverso cui si compì. 

A tutto questo non ho risposte. Solo ci si può porre di fronte ad uno spazio bianco con la coscienza che tutto ciò che verrà non appartiene al proprio pensiero, al proprio arbitrio, ma se riuscirà ad esprimersi finirà per comprendendo ed esporlo, come una parte di sé in cui esso stesso si poserà con chiarezza ed evidenza. Perché qualunque cosa nasca, alta o inutile, essa è lo specchio ed il tratto più completo di colui che la compie: più vicina a se stessi da amarla comunque, se nessuna altra potrebbe essere quella stessa forma in cui l'io sembra perdersi e, stranamente, costituirsi. 
Arturo Lini: Una breve autobiografia testo in catalogo, galleria Mentana, Firenze marzo 1994